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The Evil

Ultimo Aggiornamento: 26/02/2008 14:48
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20/11/2007 19:17
 
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Era notte fonda quando la luce dell’ultima finestra del castello si spense in un soffio. Per rendere la stanza un po’ più suggestiva, Gea aveva acceso una candela sul comodino, diffondendo una luce tenue e calda nella sua camera da letto. La luce era tenue, e calda, sì, ma portava con se anche molti ricordi, un tempo belli.
Gea ricordava perfettamente le occasioni in cui si accendeva una candela in casa sua, ed era sempre alle feste o quando saltava la luce nell’abitazione. Da un buio pesto, con un’aria tesa e preoccupata, si avvicinava flebile una luce, una piccola fiamma che riaccendeva speranze e sicurezze negli animi, in particolare nel suo. E ad accenderla era sempre la mamma.
Un bel ricordo come questo, tenero e affettuoso, confortante nei momenti bui, si era trasformato in un ricordo triste, caratterizzato dalla solitudine e da un senso di vuoto interiore. La causa era il Padrone.
Spenta la candela, Gea si avvicinò alla finestra e il suo volto s’illuminò ai tiepidi raggi lunari che attraversavano il vetro che la separava dal resto del mondo. Il suo sguardo si gettò sulla foresta che si stagliava dinanzi al castello come una distesa verde e infinita, mentre il suo cuore volava sopra le cime degli alberi sognando libertà e vento fra i capelli, ma soprattutto libertà. Anche se il suo destino era così irrimediabilmente segnato che non era una grande conquista anche solo poter immaginare di essere libera.
Si allontanò controvoglia da quel sogno al sentire il verso del gufo, suo immaginario nemico. Con quei suoi solenni “uh-uh” la costringeva, ogni sera, a rinunciare a quel flebile piacere, a quella lieve e impercettibile gioia nel cuore che le rinnovava speranza, fiducia e voglia di svegliarsi la mattina successiva. In che cosa credesse, poi, talvolta non lo sapeva nemmeno lei.
La luna illuminava la stanza quel che bastava per non farsi male e muoversi tranquillamente tra i mobili. Prese una spazzola dal comodino e la fece sfilare fra i suoi capelli neri come lei sfilava nella stanza, a passi dolci e senza una precisa sequenza logica, come volteggiava una trottola. Nella sua mente suonavano semplici note di pianoforte, ricordo di qualche persona che le suonava quando lei era piccola. Si muoveva seguendole silenziosamente, in un movimento che in un certo senso poteva addirittura sembrare un ballo, simile ad un waler; purtroppo Gea non ne conosceva nemmeno il nome e non seppe mai dare una forma danzante a quella serie di movimenti che la liberava dall’oppressione della giornata.
Fra tutti i suoi volteggi, si fermò di fronte ad una porta. La sua stanza era comunicante con quella di Sheryl: coinquilina, amica, collega, rivale, alleata… talvolta anche sorella.
Sotto molti aspetti erano identiche e molto legate, ma sotto altrettanti altri erano l’esatto opposto. Un giorno erano incredibili amiche, quello seguente acerrime nemiche, pronte ad uccidersi a vicenda come due gatte randagie.
E il Padrone sapeva, e godeva.
Gea aprì cautamente la porta, per non svegliare l’amica, e la trovò seduta sul cornicione della finestra, il vetro rotto e gli infissi scorticati per poter passare. Non c’erano maniglie perché non potessero scappare.
- Ma che stai facendo! – esclamò Gea, avvicinandosi a grandi passi per impedirle di cadere – Lo sai che non si può!
Sheryl non la guardò nemmeno, ne parve avesse ascoltato le sue parole. Era ancora lì, imbambolata a fissare lontano, qualcosa d’irraggiungibile. Un vento d’aria gelida aveva pervaso entrambe le stanze ed entrambe le ragazze avevano le guance rosse per l’esposizione a troppa aria dopo mesi di astinenza.
- Vieni via, prima che ti scoprano…
- E chi vuoi che mi veda?Il gufo? – rispose finalmente l’altra, mentre stancamente dava retta al consiglio e s’accingeva a scendere. Aveva una mano bendata malamente con una strisciolina di stoffa strappata dalla camicia da notte, ed era tutta insanguinata. Doveva aver rotto il vetro con un pugno.
- Inutile fare la spiritosa – ribatté Gea acida – Tanto ormai il danno è fatto. Che credevi di fare, eh? Ti vuoi far ammazzare?
Sheryl le sorrise. Sapeva perfettamente che non poteva morire, lei. La guardò da capo a piedi, come per alleviare la tensione che le cresceva dentro nonostante fosse in lotta col suo corpo per non tradirsi con nessun espressione. Gea indossava la sua stessa camicia da notte, rosa invece che azzurra, e portava sempre un paio di calzine di cotone perché era freddolosa. Aveva i capelli scompigliati al vento, con riccioli fuori posto ovunque. Il suo volto era sereno, anche se arrabbiato. Non sorrideva, ma non poteva neanche perdersi in una sciocchezza: l’aveva detto lei stessa, il danno ormai era fatto.
- Se la cosa ti preoccupa tanto, sappi che la colpa è interamente mia, quindi me ne prenderò ogni responsabilità e..
- Lo sai benissimo che non è così! – sibilò l’altra, assottigliando gli occhi in due fessure – Il Padrone ti…
- Non m’importa niente del Padrone! – sbottò Sheryl, con ampi gesti delle mani - Quante altre cose può portarmi via, quanto altro dolore può infliggermi? Non ho più nulla da perdere, quindi tanto vale godersi un pochino di vita, un semplice soffio d’aria fresca dopo mesi passati qui dentro, rintanati come topi!
Gea la guardò a testa alta, col naso all’insù, come una che snobba qualcun altro. Non approvava quel genere di discorsi, ma in cuor suo sapeva che aveva ragione. Sheryl non aveva più niente al mondo per cui vivere, e il destino voleva che fosse incapace di morire. Era un particolarità di alcune creature magiche, una particolare maledizione che impediva di morire in qualsiasi circostanza stesse per accadere; e Sheryl era una di queste creature, come aveva abilmente intuito il Padrone qualche anno prima. Gea comprendeva il suo dolore e non poteva fare altrimenti. Quella che aveva davanti ne aveva passate così tante che non era più nemmeno classificabile come Creatura Umana Incapace di Morire. No, quello lo era alla nascita. Da quando il Padrone l’aveva presa con sé nel castello, era diventata velatamente una creatura aliena, qualcosa d’indescrivibile. Giovanissima, appena sulla ventina, ma così magra e segnata dalla vita che sembrava potesse avere cent’anni.
Calò il silenzio tra le due ragazze. Sheryl si attorcigliò nervosamente una ciocca di capelli attorno all’indice e si voltò verso la finestra, con lo sguardo posato lontano; Gea invece deglutì a forza e si limitò ad osservarla, come a volerne carpire i pensieri nella testa.
La sua amica aveva lunghissimi capelli di un tonalità castana molto opaca, resa tale dalla totale mancanza di luce di un paio d’anni prima; erano leggermente mossi, poco curati. La sua pelle era di un bianco quasi innaturale per lo stesso motivo dell’opacità dei capelli, ed era piena di graffi e lividi; nei suoi occhi azzurri come il cielo di prima mattina ci si poteva perdere per la solitudine che trasmettevano, e per il gelo che ti perforava le ossa quando li fissavi. Era anche per questo che molti nemici scappavano di fronte a lei, non solo per la sua potenza e le sue capacità magiche smisurate.
Annuì ai suoi pensieri ed uscì dalla stanza, non curante che Sheryl si fosse di nuovo seduta sulla finestra dondolando le gambe sul lato esterno del castello.
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