simbolo di purezza
Un po’ come il rinoceronte lanoso, giunto in Europa dall’Asia nel Pleistocene, in tempi più recenti anche il mito dell’unicorno è approdato nel Vecchio Mondo.
Più o meno tutto comincia con Ctesia, sapiente nativo di Cnido, città della Caria, in Asia Minore.
Ctesia fu consigliere e medico personale di Artaserse II, re di Persia intorno al V secolo a.C. Scrisse l’Indikà, sull’India, giunta a noi solo in frammenti; qui ci racconta di asini dal manto bianco, occhi rossi e testa color porpora, con un lungo corno in mezzo alla fronte. Usato come coppa, il corno previene le malattie nervose; ridotto in polvere è un antidoto contro i veleni.Il corno ha tre diverse colorazioni: bianco alla base, nero in mezzo e rosso in punta. Più tardi, i fantasiosi alchimisti medievali ci andranno a nozze nel paragone con le tre fasi della trasmutazione alchemica: albedo, nigredo e rubedo, associate proprio ai tre colori descritti da Ctesia.
E così il nostro equino amico comincia una fortunata carriera in occidente, dove avrà sempre caratteristiche positive, e riuscirà a convincere della propria esistenza parecchie generazioni di eruditi, almeno fino al XVII secolo.
Ne parlano Aristotele (384-322 a.C.), Eliano (170-235 d.C.) e Plinio il Vecchio (23-79 d.C.) nel Naturalis Historia. Quest’ultimo distingue il rhinoceros, che pare proprio essere il nostro rinoceronte, unicornis simile a un bue con un corno in fronte, e il terribile monoceros, un cavallo enorme con la testa da cervo, zampe da elefante e un lungo corno nero. Un po’ di confusione con qualche animale esotico tipo l’antilope tibetana o l’orice africana ci deve essere stata.
L’unicornis sarà quello più ripreso dagli autori medievali, talvolta col nome di liocorno o urocorno.
Inoltre, il nostro trottante amico viene menzionato più volte nella Bibbia, anche se in realtà si tratta solo di traduzioni improprie venute fuori nel corso dei secoli, dove l’animale fantastico re'em, una specie di bufalo, è stato sostituito dal monoceros pliniano. Se poi si aggiunge che viene nominato anche negli scritti di qualche padre della Chiesa, come Tertulliano di Cartagine ( 155-220 d.C.), il gioco è fatto: l’unicorno diventa uno degli animali più amati della Cristianità.
E così viene visto come simbolo di immortalità, di purezza, di amore e talvolta dello stesso Cristo. I rimandi alla simbologia fallica, naturalmente, non vengono mai percepiti almeno a livello conscio, nonostante il continuo accostamento della leggenda alle vergini.
Nei bestiari, tipo il Phisiologus del II secolo, è per lo più descritto come un animale grande come un capretto, ferocissimo e dotato di forza incredibile, con un unico corno in mezzo alla fronte. Ha gli zoccoli bifidi come i cervidi e un po’ di barbetta. Il corno è di solito a spirale e chiamato alicorno, nome con cui a volte viene identificato l’animale stesso. Per catturare la pepata bestiola è necessaria una vergine, che riesce ad ammansirlo e lo allatta per condurlo nel palazzo di un re. Se il dolce piccolino si accorge di essere stato fregato dalla signorina perché sua bella amica tanto illibata non è, sventra senza pensarci due volte la poveretta.
A parte il finale, che appartiene alle versioni più folkloristiche, la leggenda è stata vista come un’allegoria dell’Immacolata Concezione, dove la vergine è naturalmente Maria, il cacciatore lo Spirito Santo, e l’unicorno la rappresentazione della Potenza Divina o del Cristo stesso. E nel medioevo, almeno nei primi secoli, un bestiario era tanto più credibile quanto più i suoi animali erano in qualche modo rappresentazione della perfezione di Dio.
L’unicorno ha avuto anche una certa fortuna nei testi della poesia cortese in Francia e in Italia, intorno al tredicesimo secolo, quando diventa simbolo dell’amore del cavaliere attratto dalla sua dama come l’unicorno lo è dalla vergine. Inutile dire che questa versione, nel marasma dei cambiamenti socio-politici rinascimentali, fu bollata come eretica.