Edipo: l'uomo vince sulla bestia, il Fato vince sull'uomo
Racconta Sofocle (Colono 496 a.C.— Atene 406 a.C.), in quella che senz’altro è la sua tragedia più famosa, L’Edipo re, dell’ineluttabile destino di un giovane. La composizione dell’opera è incerta, ma siamo comunque nella metà del V secolo a. C.
Viveva dalle parti di Corinto il giovane Edipo, figlio adottivo del re locale, il buon Pòlibo. Il baldo ragazzetto non sa di non essere il figlio naturale del Re, almeno finché non gli viene svelato da un conoscente. Adirato e incapace di accettare la realtà, Edipo si rivolge all’Oracolo di Delfi. Come ogni buon oracolo che si rispetti, quello di Delfi di solito risponde con frasi sibilline, così rischia di sbagliare il meno possibile. Non è il caso di Edipo. Al giovane non viene rivelata la vera identità dei suoi genitori, ma gli viene fatta una profezia molto precisa: egli ucciderà il padre, sposerà la madre e da quelle nozze nasceranno dei figli che saranno anche suoi fratelli.
Inorridito, Edipo crede che l’Oracolo parli dei suoi genitori adottivi. Il ragazzo è tutto d’un pezzo e decide che non metterà mai più piede a Corinto.
Si dirige allora verso Tebe. Gli capita di incrociare un cocchio, che pretende il passaggio. Edipo fa per spostarsi, ma il conducente del cocchio gli mena lo stesso una frustata. Edipo, che non è proprio un tranquillone, uccide il conducente con tutto il seguito. Si salva solo un vecchio, che torna in città per riferire l’accaduto. Fra le vittime di Edipo c’è Laio, il re di Tebe. Così quando il giovane arriva in città, scopre che il trono è vacante.
Ora, come accade a quasi tutte le città della Grecia mitologica, anche Tebe è vessata da un terribile mostro. Si tratta proprio della nostra Sfinge. In linea di massima, la Sfinge greca ha il corpo da leone, la testa di donna e le ali d’aquila. Al contrario della maggior parte delle fiere fantastiche, però, la Sfinge non è priva d’intelletto, anzi. La, si fa per dire, bella leonessa finisce per proporre un complicato enigma, un giochino d’intelligenza a chi si trovi a passarle davanti, là dov’è appostata, alle pendici del monte Citerone. Era stata Giunone a porla in quel luogo, per punire gli abitanti della città di non aver fatto abbastanza sacrifici in suo onore. Naturalmente, la Sfinge massacra senza ritegno tutti quelli che non riescono a risolvere l’indovinello. Inutile dire che nessuno, fino all’arrivo di Edipo, era riuscito nell’intento.
L’origine del termine Sfinge non è ben chiaro, dato che il mostro, come vedremo in seguito, ha origini dalla mitologia egizia. Il greco Sphinx deriva dal verbo sphig, serrare, soffocare, stringere. Ma è probabile che il termine abbia origine, o sia stato influenzato, dal copto (la lingua egizia scritta coi caratteri greci) fik, demone. Meno accreditata è l’ipotesi che derivi dall’egiziano Shesep-ankh, un titolo attribuito alle statue reali della IV Dinastia (intorno al 2600-2500 a. C.)
Fatto sta, per qualunque motivo i tebani abbiano deciso di chiamare così il loro mostro (quasi uno status symbol per ogni metropoli mitologica che si rispetti), a un certo punto decidono di liberarsene. Anche perché la cara Sfinge, forte del suo smisurato orgoglio intellettuale, di poveracci, giovani e vecchi, nobili e plebei, ne aveva già fatti fuori parecchi. Evidentemente i tebani antichi non avevano una grande passione per uno dei passatempi preferiti dell’uomo moderno: l’enigmistica, di cui la Sfinge è diventato il simbolo indiscusso.
Anzi, i tebani odiano così tanto qual maledetto indovinello che sono disposti a dare il trono e la bella regina rimasta vedova. Inutile dire che il nostro eroe, come ogni eroe che si rispetti, decide di accettare la sfida.
Si presenta dalla Sfinge che gli propone l’agognato enigma. Ora, chi legge potrebbe rimanere deluso dall’indovinello, dato che la maggior parte di voi già lo conoscerà. Con tutta probabilità gli sarà stato proposto dal compagno di banco delle elementari, invidioso di aver subito quella rete nel calcetto dell’intervallo e desideroso di una rivalsa intellettuale; o cose simili. Niente di strano, visto che il giochino ha la bellezza di più di 2400 anni, e ormai è conosciuto un po’ da tutti. Più o meno recita così: “C’è un essere che cammina sulla terra prima con quattro zampe, poi con due e infine con tre. Quando il numero delle zampe è maggiore, minore è la sua forza”. Questa, all’incirca, la versione di Sofocle, mentre per altre fonti la creatura “cammina all’alba con quattro zampe, a mezzogiorno con due e al tramonto con tre”. E le varianti sono più o meno infinite.
Naturalmente Edipo sa la risposta: l’essere è l’uomo, che da neonato cammina a quattro zampe (all’alba della vita), da adulto con due (mezzogiorno) e da vecchio con tre (tramonto), dato che si aiuta con un bastone. Da neonato e vecchio, chiaramente, la sua forza è minore.
La povera Sfinge non regge all’onta dell’essere stata superata sul piano dell’intelligenza, e si getta da una rupe (in altre versioni è l’eroe stesso a uccidere il mostro). Il cervello dell’uomo che trionfa sulla bestialità; o forse sul divino stesso, visto che la Sfinge era figlia della Chimera e del cane Ortro, a loro volta figli del titano (quindi una divinità ancestrale) Tifone e di Echidna, la vipera, mezza donna di grande bellezza, mezzo rettile maculato.
Edipo finisce per sposare la regina, con la quale ha dei figli. Solo in seguito scoprirà che in realtà Laio era suo padre. L’ex re di Tebe, dopo aver consultato il solito Oracolo di Delfi anni prima, aveva deciso di liberarsi del figlio: era stato predetto che il sovrano di Tebe sarebbe stato ucciso dalla sua prole. E così, senza saperlo, Edipo aveva finito per sposare la propria madre, uccidere il padre e generare dei figli che sono anche suoi fratelli, come recitava la profezia.